VI32981 | Comunicazioni associative
“I dati sulla produzione industriale di aprile mostrano come siano stati finalmente superati i livelli produttivi di febbraio 2020, gli ultimi prima della pandemia.
Per onor di chiarezza, quei livelli non possono essere certamente considerati un obiettivo sufficiente per le nostre imprese, ma danno un’idea di come la ripartenza sia seria e concreta, anche se purtroppo non per tutti i settori.
Quello che preoccupa davvero, però, è come l’entusiasmo per il rimbalzo della produzione si stia tramutando in una sottovalutazione degli allarmi che da settimane le imprese stanno lanciando al mondo della politica”.
La presidente di Confindustria Vicenza Laura Dalla Vecchia commenta così gli ultimi dati rilasciati da Istat, ponendo l’accento sulla necessità che la ripartenza industriale non venga interrotta da deficit sistemici.
“I problemi esistenti lungo le catene internazionali di fornitura rischiano seriamente di bloccare le fabbriche”, avverte la presidente.
Esemplare il caso della Cina che è subfornitrice per moltissimi settori in tutto il mondo, i quali ora, almeno per quanto riguarda i paesi del G7, vivono un boom della domanda che il paese asiatico non è in grado di soddisfare, né sul fronte delle materie prime né su quello dei semilavorati.
“Abbiamo assoluto bisogno di riprendere la nostra posizione dominante in queste filiere mondiali per non farci scavalcare dai concorrenti esteri – aggiunge Dalla Vecchia –. Grazie ai vaccini, dobbiamo riuscire a tornare, seppur con prudenza, a viaggiare.
La presenza fisica in certi paesi è fondamentale e non solo con i clienti e i fornitori. Moltissime aziende, non solo i grandi gruppi ma anche le cosiddette multinazionali tascabili che popolano il Veneto, hanno propri stabilimenti in paesi extra UE, come Cina o Australia, ad esempio, in cui letteralmente non mettono piede da 18 mesi.
C’è grande dibattito, giustamente, attorno ai green pass a sostegno del turismo, ma le imprese hanno urgentemente bisogno di accordi intergovernativi che permettano, perlomeno a chi ha aziende all’estero, di raggiungere i siti produttivi ormai sguarniti inizio 2020.
La Cina è praticamente chiusa e ora, almeno per chi è vaccinato e quindi protetto, si fa fatica a capire come mai non si stia lavorando per trovare dei corridoi, regolamentati e controllati, per riprendere i viaggi d’affari in un paese che è centrale per le produzioni di tutto il mondo.
Attualmente, inoltre, per volontà del governo cinese, è possibile atterrare nel paese solo con voli diretti e dall’Italia ce n’è solo uno. Questo deficit ci mette in difficoltà e avvantaggia i nostri primari concorrenti. Diventa davvero urgente sbloccare questa situazione e chiaramente questo dipende da accordi bilaterali tra governi”.
Il secondo ostacolo alla ripresa industriale è quello delle competenze mancanti, che si intreccia con lo sblocco dei licenziamenti e l’attuale situazione riguardante politiche attive e ammortizzatori sociali: “Su questo tema il dibattito pubblico è più presente – continua Dalla Vecchia -, peccato che, anziché puntare sul pragmatismo, ci si stia spostando su posizioni ideologiche.
Oltre alla scarsità di materie prime e alle difficoltà nelle catene di fornitura mondiali, le aziende non riescono a rispondere al 100% alla domanda perché manca il personale qualificato. I mercati stanno cambiando velocemente, il mondo del lavoro deve adeguarsi a sua volta altrimenti, senza mezzi termini, rimarremo tagliati fuori.
Il sistema, nel suo complesso, deve cambiare totalmente, deve poter essere flessibile, in grado di riuscire ad aggiornare e formare le persone per essere sempre competitivi. Un approccio che è esattamente contrario all’attuale che ha previsto un blocco dei licenziamenti abnorme (il quale non ha portato nemmeno i risultati sperati, basti fare un confronto con gli altri paesi europei) e l’impossibilità di fare formazione alle persone in CIG, un assurdo.
Se le risorse fossero investite, almeno in parte, nella riqualificazione delle persone, sarebbe un vantaggio in primis per il lavoratore, che avrebbe molte possibilità di tornare in azienda o trovare una nuova collocazione; in secondo luogo per l’impresa che potrebbe coprire il mismatch di competenze attualmente enorme; e, infine, per lo Stato e la collettività che trasformerebbe quello che è un costo, la cassa integrazione fine a se stessa, in un investimento il cui ritorno sarebbe un tasso di occupazione più alto”.
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